"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



mercoledì 17 dicembre 2014

ARTURO PÉREZ-REVERTE (Sketches series - 19)


ARTURO PÉREZ-REVERTE
(Sketches series - 19)

 
Se l’autore ha scritto una sola opera, apparentemente è più semplice scriverne.
Se si tratta di un autore di genere, rimane ancora superficialmente agevole scriverne.
 
Poi capita un autore che scrive sia opere di genere sia opere non di genere (o viceversa?).
Quale è il genere? Due opere non di genere sullo stesso argomento sono un secondo genere?
Devo prima aver letto tutto di lui per scrivere un testo corretto? Fatto questo quante interviste devo aver seguito (perché non “leggo” You Tube) per darne un profilo non troppo frammentario?
 
Ma come? Ci hanno insegnato che un autore letterario (chissà perché in altri ambiti no) scrive sempre lo stesso libro.
Forse no (non è infrequente che io descriva per negazione) oppure forse egli/ella scrive sempre la stessa vita (vera o voluta): la propria.
 
La Spagna non è tutta uguale ma, e, soprattutto, io ho una visione linguisticamente castigliana e globale della nazione, senza distinguo politici catalani e/o baschi (almeno sino a che non ci sarà l’indipendenza ([1])), in parte anche Arturo Pérez-Reverte la vede così.
 
Ho avuto la fortuna di assistere a una conferenza milanese di Arturo Pérez-Reverte, il 15 novembre 2014.
Fortuna per più ragioni: i pensieri espressi dal vivo sono più efficaci dei medesimi appresi tramite una registrazione (seppure audiovisiva e di ottima qualità ([2])).
Ma la reiterazione dei medesimi pensieri, lungi dall’essere un tedio, rincuora su certe posizioni angolari (sia perché fondamentali, sia perché spigolose rispetto alla media dei politicamente corretti) dell’Autore che io condivido.
Sono potuto subito arrivare a Il pittore di battaglie, uno dei più bei libri da me letti negli ultimi anni e che, pur se successivo, consiglio di leggere prima di Territorio comanche che lo precede e lo motiva. Ciò in quanto El pintor de batallas è stato citato a più riprese dal suo autore nel corso dell’incontro con il pubblico milanese.
 
Il risultato di tutto ciò è, come mi capita talvolta, qualcosa di incongruente con la fama dell’Autore nativo di Cartagena, la quale si basa sulla saga di Alatriste, salgariana nello spirito e non solo, e su Il club Dumas (che è li da qualche semestre, in attesa che sia il suo casuale turno di lettura. Certo che lo leggerò).
Cioè mi sento ben separato su plurimi piani dal suo lettore medio italiano che, anche per miopia editoriale, difficilmente incapperebbe nei due titoli sopra citati i quali sono al momento nel limbo pre-remainder. Quel lettore che consuma senza percepire lo sforzo del suo creatore la narrativa seriale che tanto tutti rincuora.
Ovviamente in Spagna tutto è diverso.
 
Andate a leggere Limonov di Emmanuel Carrère. Troverete un gusto familiare di sfida alla norma intellettualmente comoda. Proprio come accade con Pérez-Reverte.
Quello che cambia è solo il punto di vista, forse - anche se potrebbe parere strano - intellettualmente più difficile per il testimone storico murciano di quanto possa esserlo per il protagonista/testimone (ma con pseudonimo, nasce Eduard Veniaminovich Savenko) storico Eduard Limonov russo.
Incidentalmente: questa vicinanza la ho segnalata vis a vis quel 15 novembre 2014 all’Autore, il quale, non credo solo per educazione, mi ha detto che il volume di Carrère è fra quelli che sono lì da leggere.
 
Per i precisi (ben oltre questi miei pensieri scarsissimi): http://www.perezreverte.com/.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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[1] Curiosi gli Italiani che tifano per l’indipendenza nei territori spagnoli ma criticano gli indipendentisti nazionali.
[2] Ci sono diverse belle interviste su YT, cercate quelle lunghe; se non conoscete lo Spagnolo, trovate il modo di seguirle comunque.

mercoledì 10 dicembre 2014

PIERO MANZONI DUE


PIERO MANZONI DUE
(ovvero la rimessa a nuovo dell’artista, morto o vivo)



Leggo un libro pubblicato nel 1990: L’ultima linea di Piero Manzoni, scritto da Paolo Barrile.
Un romanzo ma con molte notizie, dunque una finzione cronistica.

 

Piero Manzoni non è un santo, e lui difficilmente avrebbe voluto esserlo.

 

Casualmente, riordinando la mia piccola bibliografia manzoniana, in questo dicembre 2014 incappo in una notizia vecchia di un anno e più; la Fondazione Manzoni intentava causa a Dario Biagi per il suo libro Il ribelle gentile ([1]) in quanto esso sarebbe diffamatorio. Certo non è “ufficiale” come la biografia scritta da Flaminio Gualoni sotto l’egida della Fondazione ([2]) quel volume, ma proprio il suo autore lo dichiara e peraltro di ricerche ne ha fatte.
La Fondazione è soccombente, in quanto il volume di Biagi non risulta ritirato dal mercato.

 

In base a un complesso di norme della legge n. 633 del 22 aprile 1941, “gli autori delle opere d’arte e di manoscritti hanno diritto ad un compenso sul prezzo di ogni vendita successiva alla prima cessione delle opere stesse da parte dell’autore” ([3]) e anche se il massimo ammontare di questo compenso è di Euro 12.500,00 ([4]), considerati i valori d’asta raggiunti da Manzoni non si tratta esattamente della mancia al lustrascarpe.

 

Ecco allora che come con Hugo Pratt (da vivo e da morto) e con David Bowie (da vivo) e con Morrissey (da vivo), un’immagine ben definita e accattivante dell’Artista Manzoni non è irrilevante.

 

Forse per questo, se quasi un quarto di secolo fa affermazioni - da interviste di Barrile - come: “A Piero, soprattutto alla fine, andava bene tutto: bianchini, pernod, vermouth, vino, soprattutto vino” ([5]) e “Piero [...] era in coma etilico. Nanda [Vigo, sua fidanzata] lo sapeva, ma non era preoccupata” ([6]) e “Dicono che Piero si fosse suicidato. Non è vero. Ma in un certo senso può essere. Lui stesso mi confidò negli ultimi tempi, e in diverse circostanze, di averci pensato” ([7]) potevano essere tollerate (o non conosciute o, addirittura, conosciute ma semplicemente scientemente denegate), nel 2013 possono essere pregiudizievoli ([8]).

 

Del resto, l’affermazione della sorella minore di Piero Manzoni, Elena, rinvenibile nel documentario del 2014, ufficiale evidentemente, Piero Manzoni Artista (regia di Andrea Bettinetti), per cui egli avrebbe impiegato per la realizzazione della propria Merda d’artista delle preesistenti confezioni di carne in scatola appare risibile: chi ha mai commercializzato razioni da 30 (trenta!) grammi?
Per quale motivo doveva mentire Dadamaino (nata Edoarda Emilia Maino) a Barrile dichiarando nel 1990 (forse 1989) che Manzoni defecava per finalità multipla, ma nobile (secondo altri ivi si sarebbe “allenato”, per poi produrre a casa propria) nella vasca da bagno di Via Bitonto, in quell’appartamento milanese di proprietà dei genitori di Edoarda, giovane sodale di Piero? ([9])
 
Ma così vanno le cose, e quindi nessuna menzione dell’opera di Barrile da parte della biografia che gode dell’investitura della Fondazione, e nemmeno della tesi di diploma di Mauro Maffezzoni del 1986 ([10]) e neanche della tesi di laurea di Antonella Fabemoli, concittadina di Manzoni, del 2003 ([11]): tutti e tre i volumi sono citati da Biagi ([12]).
Ebbene, questo tipo di revisionismo storico continua a non piacermi, lo ho già scritto ([13]), ma è meglio essere chiari.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Sottotitolato: La vera storia di Piero Manzoni.
[2] Piero Manzoni Vita d’artista, di qualche mese precedente il tomo incriminato.
[3] Articolo 144, comma 1, legge n. 633/1941.
Alla morte il diritto si trasferisce per 70 anni agli eredi (articolo 148).
[4] Articolo 150, legge n. 633/1941.
[5] L’ultima linea …, cit., p. 190.
[6] Idem, p. 191.
[7] Idem, p. 192.
[8] Mi piacerebbe leggere gli atti di causa, anche perché se io fossi stato il legale di Biagi avrei fra l’altro fatto presente come non solo Barrile nel 1990, ma anche l’autorevolissimo Corriere della Sera nel giugno 2007 a pagina 43 (una splash page realizzata in occasione di una mostra retrospettiva napoletana sull’artista milanese, nato a Soncino) così dichiarava “Tutte le biografie riferiscono che Manzoni morì d’infarto; alcune testimonianze scritte affermano che l’ultima persona a rivolgergli la parola fu probabilmente Pino Pomé, l’ oste che gestiva la trattoria all’ Oca d’Oro di via Lentasio, a due passi dal corso di Porta Romana. Ma le cose non andarono così. Piero Manzoni morì a 29 anni, nelle prime ore del mattino del 6 febbraio 1963, a causa di una devastante cirrosi epatica: il collasso cardiaco fu una conseguenza. A raccontarlo è Nanda Vigo, allora compagna dell’ artista.” (l’articolo è a firma di Francesca Bonazzoli, intitolato “Mi innamorai delle sue visioni e lo seguii fino all’ultimo bar”, fu pubblicato il giorno 3 ed è ripreso anche da Biagi).
[9] E chi è adesso proprietario della Merda numero 17 che l’amico aveva regalato all’amica e che io vidi esposta nel 2010 a Bologna?
[10] Intitolata Indagine su Piero Manzoni e discussa all’accademia di Brera.
[11] Intitolata Il caso Piero Manzoni – Quando l’escremento divenne Arte; nel 2009 auto pubblicata come libro, è ancora disponibile.
[12] Cui faccio un solo appunto: aver modificato (salvo dove citava altri) la grafia di Giamaica.

giovedì 4 dicembre 2014

I MILANESI (“Salviamo Milano” reprise)


I MILANESI
(“Salviamo Milano” reprise)

 

Ho impressionato (pittoricamente, non fotograficamente) di milanesità, in modo più o meno diretto, alcuni precedenti post.

 

Loredana Bertè, Luciano Bianciardi, Gianni Brera, Dino Buzzati, Franco Cavallone, Oreste Del Buono, Gian Carlo Fusco, Giovanni Gandini, Angela e Luciana Giussani, Piero Manzoni, Gigi-Yole-Susanna-Silvia e tutti gli amici dell’eliporto di Via Galvani (whatthefuck!), Renato Olivieri, Pietro, Enrico Ruggeri, Giorgio Scerbanenco, Umberto Simonetta, Antonio “Tonito” Talatin, Beppe Viola.
Emilio Salgari sarebbe stato un grande milanese; infatti, ben pochi di quelli qui sopra elencati sono nati a Milano.

 

Un vero milanese rimpiange i panini di “Cesare degli special” in Via Turati, non quelli di Gattullo.
E sa indicare la sede primigenia del Donini.
Premio speciale per chi mi dice che negozio c’era di fianco al lato bar del Savini (non serve essere “futuristi a caraffa” o sapere chi occupava i primi 4 box del ristorante simbolo di Milano, allora, per saperlo).
Perché Milano è morta, non per colpa (o a causa) di Bettino Craxi, e non risorge.

 

Ricordo una tarda sera, dopo cena, “al Giamaica” ([1]) con mamma e papà, dicembre: io dovevo essere sugli 8-9 anni: mi ordinano un “canarino”: la Signora Lina chiede ai miei genitori se sono adottato: il mio giaccone blu da marinaio ([2]) evidentemente fa molto Martinitt ([3]), smentita e mezze risate dei miei genitori di cui sono subito reso partecipe (grazie).

 

Io ho ricevuto la Pour Le Merite jugend-gavrochista per il mio frequentare Brera quando ancora Crippa o Kodra pagavano i conti al Soldato d’Italia con i quadri, le Merde non si vendevano, i travestiti erano delle anomalie (e a un alunno delle scuole elementari talune perplessità suscitavano) e, qualche anno dopo, con Pietro si tirava, lui alla guida io sui 14-15 passeggero, con/il (dune) buggy con motore Porsche (freni fuckallisti, evidentemente, e cinture di sicurezza whatfor?) sui listoni di Via Pontaccio come fosse un dragster su un quarto di miglio e frenata a paracadute.

 

Gli schizzi della mia tavolozza sono finiti, perché non voglio ripetere gli acquerelli che trovate cercando fra le etichette di queste righe e con qualche sponda ulteriore nel blog.

 

E ricordate, se volete, che fra gli amici ci sono Mauro “Maurino” Di Francesco e Cochi Ponzoni (fra i morti Giorgio Porcaro, not forgotten) piuttosto che i famosi, un film come Kamikazen di cui non esiste DVD, etc.

 

Dedicato ([4]) a: Valerio A. (prima o poi ...); Pino M.; Gigi, Yole, Susanna e Silvia M.; Cesare M. (RIP 2014); Pietro Q.; tutti quelli che - vivi o morti - non abbisognano di istruzioni, compreso mio zio Mario S. (RIP 2014) un napoletano “di Milano” che ha spiegato due o tre cose a Umberto Eco (uno di Alessandria, ancora oggi, mai stato milanese).

 

Un milanese non parla mai di panettone.
Buon Natale, comunque.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Allora si chiamava ancora Giamaica. Adesso invece (anche il Giamaica non è più il Giamaica) http://www.jamaicabar.it/.
[2] Tagliatomi su misura da mio nonno, übertailor: si chieda a chi era allo Hurrah manhattanita nel 1980 a vedere i Dexy’s Midnight Runners a gomito con me che indossavo un suo blazer sfoderato.
[3] Se devo tifare, tifo Angelo Rizzoli senior, vs. Arnoldo Mondadori: cfr, Oreste Del Buono, Amici, amici degli amici, maestri ….
[4] Pantera Loredana dal ferino avorio luccicante in Via Verri al chiaro di luce artificiale fuori dal No Ties, 1980 a settembre di sera. Già scritto forse, ma fa niente.

mercoledì 12 novembre 2014

DI SNIPERS, TIREURS, FRANCOTIRADORES E GRAFFITISTI (dove osano le perle, mediatiche e critiche)


DI SNIPERS, TIREURS, FRANCOTIRADORES E GRAFFITISTI
(dove osano le perle, mediatiche e critiche)

 

Quando decisi con chi li firma (usando il moniker “Top Shooter”) di creare una “Sniper series” di post per il blog, l’idea era quella di essere più aderenti al formato del medium, dunque testi più corti e senza o pochissime note a piè pagina ([1]).
Il titolo della serie era ispirato, quasi un ossimoro, ai romanzi di Alan Altieri che hanno come protagonista lo sniper, appunto, Russel Kane delle SAS britanniche. Ma c’era anche una strizzata d’occhio a Jean-Patrick Manchette e al suo eccellente (capolavoro?) La position du tireur couché.
 
Qualche settimana fa mi è capitata fra le mani la recensione di Le Monde Livres di El francotirador paciente di Arturo Pérez-Reverte, autore in Italia conosciuto ancora essenzialmente e superficialmente (ha scritto anche molto altro) per il solo romanzo El club Dumas ([2]).
Mi sono subito incuriosito in quanto lasciata la storia antica o premoderna e il mondo della bibliofilia, questo autore ha affrontato un mondo rispetto al quale, pur essendosi storicizzato, esiste una discreta ignoranza generale e, in Italia, cioè quello degli autori di graffiti (cd. “writers”). Lo ha affrontato utilizzando il nome Sniper per il personaggio-oggetto del romanzo.
 
Sin qui tutto bene, ma questo post rischia di diventare una perla mediatica.
 
Eh sì perché il “povero” lettore o potenziale tale (il libro in Italiano ha il titolo Il cecchino paziente) scopre che ci sono modi e modi per fare una recensione.
Da un lato, il Signor Marco Cicala con la sua intervista all’Autore pubblicata su Il Venerdì di Repubblica del 3 ottobre 2014 (reperito in rete) e dall’altro il Signor Vincenzo Trione, professore, di cui mi sono occupato in altro post ([3]), che scrive una recensione su La Lettura (Corriere della Sera) del 6 novembre 2014 senza far altro che virgolettare parole e frasi del romanzo di Pérez-Reverte.
 
Ed allora: Trione “Marinetti con lo spray (i writer sono l’avanguardia, parola di Pérez-Reverte” (titolo del suo articolo).
Dall’intervista di Cicala: “Ma a lei i graffiti piacciono? «No. Mi sembrano una porcheria e penso che sia giusto perseguirli. Però, da scrittore, mi interessano i graffitari. O quantomeno: i più puri fra loro. Nemmeno i narcotrafficanti sono la mia tazza di tè. Ma ci ho fatto un libro»”.
 
Trione: “sembra dire Pérez-Reverte”.
Ma non lo dice, in quanto non è stato intervistato.
 
Trione cita Majakowski (non indica la fonte primaria, non posso controllare): “«Le strade sono i nostri pennelli e le piazze le nostre tele»”.
Dall’intervista di Cicala: “Più scrittura che pittura. «Assolutamente. Il vero writer odia la parola artista. Vuole distinguersi dalla street art, quella tollerata e spesso sovvenzionata dalle istituzioni. Banksy lo detestano. Ritengono che abbia usato i graffiti per vendersi. Il writer non cerca il riconoscimento, il successo mediatico o economico. Non si spinge fuori dal proprio territorio. Ha ambizioni modeste»”.
 
Trione “sigla” come di sua creazione un glossario di termini che, obiettivamente, reputo sia costituito di definizioni e nozioni reperibili in rete o in scritti in tema graffiti ben più risalenti.
Il primo libro in argomento che io comprai fu quello di Andrea Nelli (pare recentemente ristampato) dal titolo Graffiti a New York: 1968-1976, Lerici, 1978.
 
Notevole.
Ultimo dettaglio: Arturo Pérez-Reverte parteciperà a BookCity Milano 2014 insieme a Trione. Ebbene sul sito internet di BookCity nella pagina dedicata a “tutti i protagonisti” trovo Trione, ma non Pérez-Reverte (eppure Umberto Saba c’è).
 
Mi sa che (senza scomodare Top Shooter e la sua Sniper series) ho centrato nuovamente il professor Trione, il quale è in odore di polemiche anche in altri ambiti ([4]).
 
Con buona pace, anche questa volta ([5]), di Francesca Alinovi e, non solo per completezza, di Rammellzee (cfr. Big Audio Dynamite), ideali dioscuri del Yours truly,

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Poi sono arrivate altre serie, credo abbastanza auto esplicative nei loro titoli.
[2] http://www.perezreverte.com/.
[3] http://steg-speakerscorner.blogspot.com/2013/02/bob-dylan-e-david-bowie-di-arte_7.html.
[4] http://www.artribune.com/2014/11/i-quattro-motivi-per-cui-la-nomina-di-vincenzo-trione-e-ridicola-a-prescindere-da-trione/.
[5] Già citata in un altro post.

sabato 8 novembre 2014

“THE WIDTH OF A CIRCLE” (Song series - 4)

“THE WIDTH OF A CIRCLE

(Song series - 4)

 

Affermava Tonito che The Man Who Sold The World è heavy metal. Forse.

Lui, a suo dire, faceva parte della “gente bella”, cioè di quelli cui tutto avrebbe dovuto essere permesso invece permesso tutto non lo fu.

Riposa in pace, dannato (cfr. F. S. Fitzgerald, ma anche John Foxx) Antonio!


The Man Who Sold The World, di cui già ho scritto, è un disco a faticosa gestazione e a definitiva ossessione per l’ascoltatore.

Colossale e mostruosa come una creatura di Robert E. Howard, si erge la sua monumentale apertura: “The Width Of A Circle”. Essa nasce con dimensioni quasi accettabili, come sanno tutti quelli che ne conoscono anche le versioni giovani (non giovanili).

Poi l’opera si sviluppa e cresce quasi incontrollabile fino a divenire una schizofrenia a due e fra due: le liriche di David Bowie da una parte e le partiture di chitarra di Mick Ronson (l’angelo biondo di Hull) dall’altra.

Separati e complementari loro, come li si ascolta e vede in Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di Donn Alan “D. A.” Pennbacker: Halloween Jack (Ziggy muore formalmente quella sera) preso nei suoi mimi quasi leziosi per i profani e Ronno a calpestare il legno del Hammersmith Odeon londinese come i listelli del ponte del suo veliero corsaro, le fibbie henrymorganiane inconfondibili delle calzature a ricordarcelo.

Ogni volta l’ascolto è una esperienza e, come se non bastasse, nemmeno il tempo di riprendere fiato e si casca in “All The Madmen”.

  

NOTA DEL 2022

Circostanze fortuite mi hanno condotto a un probabilmente inevitabile nietzschiano.

Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male (1886), si trova questa considerazione di Friedrich Nietzsche: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te” ([1]).

Riandare al testo della canzone in commento è inevitabile.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] È il frammento, o sentenza o aforisma, numero 146. Si è utilizzata la versione di Ferruccio Masini; la traduzione di Masini è basato sulla versione critica originale (dunque in lingua tedesca) stabilita da Giorgio Colli e Mazzino Montinari per Adelphi.
Il capitolo è qui intitolato “Sentenze e intermezzi” (qualcuno preferisce “aforismi” come primo termine), tratto da Al di là del bene e del male, nel volume VI, tomo II, pagina 79, Milano, Adelphi delle opere nietzschiane; l’edizione cui mi riferisco è quella rilegata contenente anche l’opera Genealogia della morale.


 

domenica 19 ottobre 2014

RELIGIONE (impopolarità di non credenti e atei)


RELIGIONE
(impopolarità di non credenti e atei)

 

Vedo commenti di ogni tipo e penso:
- io che decisi (su richiesta dei miei genitori: cosa volevo fare) di NON ricevere il sacramento della prima comunione in quanto tutti i miei compagni di classe “la facevano per i regali”;
- io che in IV e V elementare ero esonerato dalla lezione di religione insieme ad un compagno di classe ebreo;
- io che nonostante l’esonero ebbi anche un “ottimo” in religione al liceo (ogni tanto capita “un prete bravo”);
- io che ho abbandonato le chiese politiche dal 1977;
- io che nel 1986 mi sentii dire dal mio compagno di università (New York City: Columbia School Of Law) Schmuel (chiedo scusa per lo spelling), Israeliano, che i peggiori da gestire da parte dell’esercito israeliano erano gli ebrei ortodossi, ...
 

Data anche la recente visita in una moschea della Presidente della Camera (che forse dimentica le Crociate e anche qualche assedio alle porte di Vienna) e riscontrando sempre scarso interesse per i non credenti e gli atei (non siamo abbastanza influenti, evidentemente),

RAMMENTO

(senza la foto del suo autore che addolcisce il concetto e anziché scomodare la solita “Religion” dei PIL) una frase di Oscar Wilde:

RELIGION IS LIKE A BLIND MAN LOOKING IN A BLACK ROOM
FOR A BLACK CAT THAT ISN’T THERE, AND FINDING IT

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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giovedì 9 ottobre 2014

LA MARCHESA LUISA CASATI (o del tentativo di rendere consumabile l’inconsumabile, a tacere del “camp”)


LA MARCHESA LUISA CASATI
(o del tentativo di rendere consumabile l’inconsumabile, a tacere del “camp”)

 

Incappai nella figura e nella vita della Marchesa Luisa Casati ([1]) nel 2003, in ragione di una recensione nemmeno tempestiva ([2]) dell’edizione italiana di Infinite Variety – The Life and Legend of the Marchesa Casati  ([3]).
Ebbi fortuna: esistevano ancora le librerie, e trovai una copia nella prima in cui entrai all’uopo.
Ebbi una seconda fortuna: contattai nei giorni successivi l’editore della precedente (e credo prima) biografia della Marchesa Casati e esso ancora disponeva di copia del volume di Dario Cecchi, intitolato Coré – Vita e dannazione della Marchesa Casati ([4]) che mi inviò prontamente.
In seguito acquistai anche l’edizione originale e quella francese di Infinita varietà, posto che esse hanno illustrazioni in parte diverse.
Terza fortuna: anni dopo rinvenni casualmente (ma non senza metodo ([5])) copia di La divin marchesa, volume di “contributi” di vari autori edito ([6]) pressoché in contemporanea con l’opera di Cecchi.

 

Dopo il 2003 in Italia direi il nulla e ciò mi sembra adeguato all’indole della nazione: in fondo Luisa Casati è semplicemente una voce senza fotografia a pagina 50 di Camp – The Lie That Tells The Truth ([7]), volume di struttura enciclopedica che ancora oggi credo sia il miglior punto di partenza per la non definibile posa/attitudine/(altro?) che è il “camp” ([8]).
Probabilmente è più conosciuta di lei la sua lontana “familiare acquisita” (ma anche lei non era nata “Casati” e dal marito si separò): quella Casati, nata Anna Fallarino ([9]) e marchesa anch’ella per matrimonio, uccisa dal marito ([10]) Camillo Casati Stampa di Soncino ([11]) il 30 agosto 1970 ([12]).

 

Ora ecco che, c’è da chiedersi con che previsioni di esito, Luisa Casati riappare alla fine del 2014 come soggetto di una mostra che sin dal titolo sembra un rifacimento: “La divina marchesa”. Sede dell’esibizione l’indubbiamente délabré, come tale perfetto, e certo non luminosissimo Palazzo Fortuny di Venezia; evidentemente non era possibile chiedere quel Palazzo Venier dei Leoni che per quasi tre lustri fu di proprietà della Marchesa ([13]).

 
Indipendentemente dal numero dei visitatori dell’esposizione, mi domando che cosa capiranno essi dell’esprit de “la Casati”, credo nulla.
In una città dove il turismo peggiora per grado di volgarità ([14]), nazionale ed estero, in un mondo dove, forse, è meglio andare in gondola a Las Vegas (o in Cina?), che senso ha rievocare i fasti scellerati ed unici, dunque non massificabili siccome non ripetibili e consumabili una sola volta, di questa pirotecnica “femmina folle” ([15]) e “di lusso” ([16]), forse non bella ma evidentemente in grado di ammaliare uomini non certo da poco?
E fra quanti anni (o mesi?) vedremo le copie invendute del catalogo diventare prima carta da macero e poi rarissime?
 

Vi sembrano evanescenti queste righe? Può darsi: sono un poco camp anche loro.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Nata Luisa Ammann, ricca famiglia di imprenditori, a Milano, nel 1881.
[2] Segnalatami essa sì tempestivamente, da EKS.
[3] Gli autori sono Scot D. Ryersson e Michael O. Yaccarino, il volume ebbe una prima edizione negli USA nel 1999.
Infinita varietà – Vita e leggenda della Marchesa Casati il titolo italiano, edita da Corbaccio (Milano).
[4] L’editore era, nel 1986, L’inchiostro blu di Bologna.
Coré era l’appellativo con cui usualmente Gabriele d’Annunzio, suo amante e amico, apostrofava la Marchesa.
[5] Passare a spazzola (se non a pettine)  i banchi di libri usati richiede discreti esperienza, allenamento e tecnica.
[6] Formalmente da Edizioni Ritz Sadler, sempre Bologna, sempre 1986. Notate la troncatura dell’aggettivo nel titolo, a ricordare il Marchese De Sade.
[7] Scritto da Philip Core e pubblicato nel 1984 a Londra da Plexus.
[8] Chi fosse interessato può anche (ma non solo) leggere i due volumi curati da Fabio Cleto, PopCamp, Milano, Marco Y Marcos, 2008 come numero 27 della rivista Riga.
[9] Nel 1929.
[10] Omonimo del marito di Luisa siccome ne è il figlio (non della Marchesa).
[11] Località che diede i natali a Piero Manzoni.
Marito che ne uccide anche l’amante e poi si suicida, sempre con il fucile da caccia.
[13] Oggi è sede, dopo essere stato dimora della “Siora Peggy”, del museo Collezione Peggy Guggenheim.
[14] Ma quelli con le buste sottovuoto di salumi al Vittoriale di d’Annunzio non sono da meno.
[15] Cito Erich von Stroheim ma solo perché mi piace la definizione, senza seguire il contenuto del suo film Foolish Wives.
[16] Un mammifero pitigrilliano? Più una “playlady”.