"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



mercoledì 30 novembre 2011

BORIS VIAN: l’ingegnere eclettico



BORIS VIAN: lingegnere eclettico

Dato il suo eclettismo, scrivere in un solo post Boris Vian, francese e noto soprattutto come autore in ambito letterario, è impossibile e anche poco logico.

Piuttosto che “affrontarlo” partendo dai suoi romanzi più famosi, il modo migliore per scoprire Boris Vian è partendo da Vercoquin et le plancton.
Oltre ad essere un romanzo molto divertente ([1]) ha il pregio di portare alla luce quelle che saranno e sono le follie della Comunità e della Unione Europee qualche decennio dopo: cioè le misure standard per le banane (o le mutande, cambia poco).
Per i cultori delle tribù giovanili, è anche interessante in quanto si tratta di uno dei pochi testi in cui si descrivono gli zazous.

Più accessibile in lingua originale è la raccolta di scritti La belle époque (variétés) ([2]).
Dopodiché è al gusto del lettore (e del rischio nel comprendere ciò che Vian scrive se si sceglie la sua madrelingua) addentrarsi in altre opere letterarie di questo personaggio geniale (se non un genio e basta).

A differenza di Roger Nimier (sono pressoché contemporanei, Vian morì d’infarto il 23 giugno 1959 a 39 anni mentre assisteva alla proiezione di un film tratto da un suo romanzo; Nimier a 37 anni) per Vian il problema è l’abbondanza: abbondanza di edizioni, abbondanza di studi e biografie, anche i libri riccamente illustrati non mancano.
Però appena ci si sposta nell’ambito delle edizioni italiane il panorama assume toni piuttosto poveri.
Quindi oltre alla ricerca dell’usato fuori catalogo, si deve magari faticar un poco in lingua originale, meno ostici sono i due “polizieschi” scritti con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, oppure procedere con altri scritti giornalistici e magari per i romanzi accontentarsi della buona raccolta economica Boris Vian - Romans Nouvelles Oevres Diverses della collana “Classiques Modernes”, nella serie La pochoteque (Le Livre de poche), curato da Gilbert Pesturau (introduzione e note) anziché procedere con i due volumi pubblicati nella collana La Pléiade nel 2011.

Essendo Vian un personaggio della vita notturna parigina di St. Germain, consiglio anche – è molto illustrato il suo Manuel de Saint-Germain-des-Prés ([3]).

Infine, è davvero impossibile non consigliare una biografia, diversamente l’immagine di questo grandissimo personaggio sarebbe non appannata ma davvero monca. Personalmente preferisco quella di Noël Arnaud, Les Vies parallèles de Boris Vian, in alternativa c’è la non originalissima nel titolo, Boris Vian di Philippe Boggio.


                                                                                                                      Steg



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[1] Per chi non conosce benissimo il Francese, se reperibile va benissimo la traduzione italiana: Vercoquin e il plancton, Milano, Corbaccio 1994.
[2] A cura di C. RAMEIL, Paris, Christian Bourgois éditeur, 1982.
[3] Ne pubblicò una versione italiana la Editori Riuniti, anni fa. Vale la pena di investire in una edizione completa, anche se copia usata, fra le prime, piuttosto che in una economica.

martedì 29 novembre 2011

TOM VAGUE – In English (the right side of my blog series)


I have been asked for it by Tom Vague himself.
It is always difficult to translate something which is already well settled.

Well here it is. Don’t be too harsh, as it was indeed for Italian readers only and you may find it dated since its first posting, by the way, it enabled me to adjust something in the original Italian text too.

                                                                                                                      Steg



TOM VAGUE – In English
(the right side of my blog series)



Tom Vague has the same relevance of Mark P.

The latter created, wrote and published the first British punkzine: Sniffin’ Glue (you should be able to find still quite easily a book anthology of it) ([1]).

Tom Vague brings the best Ripped & Torn ([2]) graphics to a higher level and creates the fan-fanzine par excellance: Vague. Better than Vogue.
Antz-follower of steel, banshee-follower without compromises, he chiselled issues in which you can follow the artists who benefit of his chronicles as if you were there with them.
A pleasure and a necessity.

I cannot guarantee anything (after all the 40-somethings who read this blog and need it for reasons other than a slightly different version of their heydays have serious deficiencies and therefore for them doing a little more search will do good).
Still, years ago there was an anthology bearing the title The Great British Mistake (which is a reference to a song by The Adverts) which will fill the needs for the “non-completists” and which, perhaps, you may still find searching online for AK Press or looking at the sites of more conventional sellers.

Tom Vague did not stop and after the first twenty issued published booklets dealing with non-musical and less easy themes (King Mob, terrorism).

Funny, I thought about ending this post remembering that one (better “the”) of his heirs is Stewart Home: then late at night I literally dusted off some precious vaguean issues and who I find in them?
Stewart Home in the final pages of at least two of the latest issues of Vague with a one-page ad for his writings and a slogan which will be the cause for tears for more than one advertising copy.

Within the web, you will find quite easily Stewart Home’s site and searching a bit more you will get some of Tom Vague’s works too (maybe a history of Notting Hill and of the W11 areas).

But my faithful spiritual browser (a “safety pin stuck in my heart”?) brings me to an unexpected goal: if you enter www.vaguerants.org.uk even latecomers may pretend not to be late.
Sometimes there is a happy ending.

Maybe you don’t need hints about Jon Savage. Or at least I hope so.


                                                                                                                      Steg



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[1] I am writing about UK, if you look at the USA – even if they are formally closer to traditional magazines – you can look for Punk The Original, New York Rocker and, west coast side, Search & Destroy. Again, the first and the third periodicals had been the subject of anthologies.
[2] Created by Tony D., probably the most graphically styled of the very first punkzines.

domenica 27 novembre 2011

DAVE WALLER (“about the young ideals”?)


DAVE WALLER
(“about the young ideals”?) ([1])

Poco si conosce di Dave Waller, se non quello che fu fatto filtrare da Paul Weller, non certo per ingratitudine ma semmai – è una mia ipotesi – per pudore verso un amico.
Così mentre la data di nascita è conosciuta ([2]), quella di morte – per overdose di eroina – solitamente si ferma al 1982 ([3]); è l’anno in cui Weller decide, formalmente il 30 ottobre, di sciogliere The Jam contro ogni logica commerciale.

Dave Waller lo si ricorda come un poeta, anche se era stato il primo chitarrista ritmico della band a partire dalla primavera del 1973 e sino alla fine dello stesso anno.

Con Waller sparisce (salve un paio di eccezioni) anche la casa editrice Riot Stories, di cui egli era in sostanza il direttore editoriale, mentre con l’amico Paul ne era anche il co-amministratore.

Cosa resta di Dave Waller? Poco, sicuramente.
In ambito musicale la canzone di The Jam “In The Street Today” lo vede coautore; poi l’ispirazione per la welleriana “Town Called Malice”.

Nella poesia, è tutto ancora più difficile: occorre infatti reperire il songbook del 1977 per In The City, album di esordio di The Jam, per qualche sua lirica e Notes From Hostile Street che inaugurò nel 1979, ma in realtà nella tarda primavera del 1980 ([4]) la piccola casa editrice in formato A5 con un totale di 31 sue liriche lungo sole 36 pagine.
Il frontespizio di questa raccolta recita, con salto di riga quasi futurista:
Tomorrow when we meet…..
                                                           Jarring collisions on hostile street”.

Parole davvero emozionate aveva speso Weller nel songbook di All Mod Cons per l’amico, e poi in suo ricordo gli dedicò la canzone (nell’album de The Style Council Our Favourite Shop, datato 1985) “A Man Of Great Promise”.


                                                                                                                      Steg


Letter to Dave Waller.” dal songbook per All Mod Cons
(contenente anche poesie di Paul Weller)

 
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[1] Cfr. “In The City” (Paul Weller per The Jam).
[2] 24 gennaio 1958, dunque di quattro mesi e un giorno maggiore dell’amico e futuro front man del gruppo.
[3] Soccorre la biografia non autorizzata di John Reed, My Ever Changing Moods: il mese è agosto, e il luogo è una camera del Weathshift Hotel di Woking; certo non un grande albergo se si trovava sopra il pub dove si riunivano.
[4] Questa è la data di copyright che porta questo libricino con copertina in bianco e nero “spillato” come una fanzine, sebbene Reed indichi l’anno successivo come quello di pubblicazione e questa datazione successiva è confermata anche da Tony Fletcher a pagina 328 del suo libro Boy About Town.

YVES ADRIEN: « Je chante le rock electrique »

YVES ADRIEN: « Je chante le rock electrique »

Sit back and enjoy/The real McCoy” ([1])




                                                                                                  Steg



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YVES ADRIEN: « Je chante le rock electrique »
Rappel initial : Born To Be Wild
Il existe généralement, vers les 10 heures du matin, une énergie renaissante. C'est le moment où à Detroit, au coeur de Notting Hill Gate, dans le Lower East Side, à Montreuil ou à Montpellier, les amoureux des Stones et des Stooges ouvrent les yeux, se traînent nonchalamment jusqu'à leurs piles de disques et se penchent, songeurs, sur l'alignement des pochettes cartonnées ou glacées. Si le déclic est immédiat, les doigts courent, l'instinct dicte et wham bam thank you mam, la musique bientôt envahit la pièce. Alliance quotidienne du rock addict avec l'électricité. Mais la redécouverte de cette pulsion-là s'avère parfois moins aisée. Car un rythme pendant la nuit a été brisé : le corps se cherche, les désirs s'ignorent ou s'annihilent.
C'est pourquoi il convient de s'octroyer, à chaque journée nouvelle, un premier shoot de rockanroll soigneusement dosé : un album en public, "Got Live If You Want It", avec ses petites filles qui s'entre-déchirent pour approcher Mick et Brian; I Wanna Be Your Dog, Not Right, Real Cool Time, les plus violents morceaux du premier Stooges. Pour oublier l'odeur de cendre froide accrochée aux murs et briser l'ennui de s'ennuyer. Une série de singles des Who, une autre des Kinks ou des Pretty Things : la malice gourmande de Chuck Berry avalant les mots de Little Queenie. Se réapproprier ce que le sommeil avait volé, choisir ce que l'on va représenter dans les quinze ou vingt heures à venir; quel personnage l'on jouera. La rage du MC5, le Teenage Head des Flamin' Groovies. Pure joie physique de la tension qui monte. Et soudain... PUNK, c'est l'orgasme électrique, le satori dirty. Le corps volatilisé et les yeux clos, sentir chacune de ses cellules hurler son désir de vie. La petite pièce est devenue un coeur effroyablement puissant, un meteorock qui défie le soleil : I'm gonna booglarize you baby.
C'est cela le rockanroll : TIRER LA LANGUE, descendre les autoroutes, la nuit, dans un vieux bus crachant des chansons de Chuck Berry. Et, de toutes les parures adoptées par cette musique, il en est au moins une qui lui sied à ravir. Je veux parler de la Wild Thing et de sa vocation d'outrage. Le feu dans la poudrière américaine des fifties. La gorge brulante pour avoir oublié d'avaler sa salive. Dynamite !!! Cette "chose sauvage" fournit aux grands pionniers l'énergie initiale. Mais l'histoire ne s'arrêta pas là. Car on retrouve l'outrage, vers 1963-1964, dans la musique des Stones, Kinks, Who, Pretty Things. La seconde moitié des sixties verra d'immenses personnages - Jim Morrison, John Kay, Iggy Stooge - le revendiquer. Et, aujourd'hui, Alice Cooper, les New York Dolls ou les Flamin' Groovies le perpétuent. Les lignes qui suivent n'ont d'autre prétention que de refléter cette continuité. Pour ceux qui aiment leur rock violent, éphémère et sauvagement teenager...

1. Sweet little rock'n roller
Qu'est-ce que la culture des juke-box ? Le goût de révoltes justifiées mais absurdes et la paire de bas Nylon que Mary Lou empruntait à sa mère ? Du Coca, des bijoux de pacotille dans des sacs à main en simili beige et des costumes pailletés rivalisant avec le néon ? L'insulte aux nantis d'une poignée de beaux gosses blancs aimant la musique noire ? Ou bien encore une lune idyllique et idéalement jaune sous laquelle naissent, au coin des rues, dans les parkings, des groupes vocaux affublés de noms impossibles ? Avec, en prime, le glissement nocturne des Cadillac pastel.
Se méfier. De la nostalgie qui frappe et gagne à tous les coups. Des légendes dont on cimente les cultes et religions. Ne surtout pas oublier le gouffre qui sépare le vécu français de l'américain : des Cadillac, ici, nous n'en avons pas vu beaucoup... Et, Hallyday excepté, les beaux gosses sont devenus des Presley sans Las Vegas. Car hériter de l'obésité sans les milliards ne condamne pas, en France, à mourir dans du cuir noir. C'est là toute la différence entre Jean Dupont et Gene Vincent.
Mais, bien souvent, c'est l'ersatz qui vous donne le goût de la real thing: la valeur douteuse du premier disque que j'achetai - un super 45 tours de Vic Laurens et les Vautours - ne gêna en rien mon entrée dans ce que presse mobilisatrice et parents accablés s'accordaient alors à définir comme "le monde trouble de la délinquance juvénile". Wow ! Pour moi ce fut, vers le tout début des années soixante, un CEG nouvellement construit, au coeur d'une cité où les filles aimaient bien qu'on les caresse sous les jupes. Le vol de disques dans les Prisunic, les bouchons des réservoirs d'essence dérobés dans les parkings et les règlements de comptes sur les pelouses ou dans les caves des immeubles. Avec, aussi, l'ennui de ces longues journées d'été passées à vider des flacons de sherry sur les marches du centre commercial. Les jets de pierres anonymes, l'échange de photos arrachées à la hâte dans les Cinémonde du kiosquiste. Les paquets de Royale dont on se bourre les poches avant de retrouver la petite amie entrevue au cinéma. Et ponctuant tout cela, le vacarme des flippers sur le cliquetis des pièces tombant dans le juke-box.
Les fins d'enfance en banlieue grisâtre relèvent de si petits conflits qu'elles nécessitent des références constantes aux mythes qui sublimeront leur quotidien : les bijoux de Little Richard dans le port de Sydney, l'habit de cuir noir revêtu par Gene Vincent à la mort d'Eddie Cochran. Ainsi naissent les légendes, ces commodités exhumées quinze ans plus tard pour satisfaire la nostalgie d'une génération.
I said the joint was rockin'
Goin' round and round,
A reelin' and a rockin'
What a crazy sound.
And they never stopped rockin'
TilI the moon went down.
(Chuck Berry, Around And Around)
De tous les immenses personnages découverts par les enfants des cités, Bo Diddley et Chuck Berry sont ceux dont le rôle a été, au fil des années, le plus justement réévalué, valorisé. Chaque ère de l'aventure électrique résonne de leurs hymnes : en 1965, les gentils Beatles jouaient Rock And Roll Music ou Roll Over Beethoven; les méchants Stones Carol, Bye Bye Johnny, Mona; les répugnants Pretty Things Roadrunner, Mama Keep Your Big Mouth Shut, She's Fine, She's Mine; les énigmatiques Who I'm A Man, les succulents Kinks Beautiful Delilah, les vertueux Yardbirds Too Much Monkey Business et les joviaux Animals Memphis, Around And Around ou Story Of Bo Diddley, l'hommage de Burdon au Gladiateur noir... En 1970, rien n'avait changé Jim Morrison chantait Who Do You Love, gravé par Quicksilver sur "Happy Trails" (le plus bel album d'acid rock) où l'on trouvait aussi Mona, titre de la première et unique aventure solo de Mick Farren. Ce dernier s'était, notons-le, inspiré du MC5 dont le second LP s'intitulait "Back In The USA", une référence à Chuck Berry... Enfin, pour ceux qui s'obstineraient à croire aux coïncidences, précisons que la "tendance" ci-dessus évoquée se confirme en 1972 : les Flamin' Groovies interprètent sur scène un Little Queenie fabuleux; le B-side de Who Do You Love, I'm Bad, a donné son nom au nouvel album de Kim Fowley et les New York Dolls se réclament de... Bo Diddley. Chink-a-chink-chink-ca-chink.
And they never stopped rockin'
Till the moon went down.
Il est des soirs où l'on donnerait tout Burroughs pour que Chuck Berry, l'éternel écolier, revienne à Paris nous conter l'histoire de la "V-8 Fo'd" et du "coupe de ville".

2. My generation (the kids are alright...)
- Qu'est-ce que vous faites samedi?
- On va à la Loco voir les Pretty Things. Et toi?
- Je sais pas très bien encore. Les Pretty Things, tu dis ? C'est eux qui ont un chanteur dément, non?
- Ouais, Phil May il s'appelle. Leur batteur est pas mal non plus. Complètement dingue. La dernière fois qu'ils étaient à Paris, on leur a filé d'la prélu. Il en a pris quinze avant leur passage, et encore dix pendant. Complètement parti. Il a fini à genoux avec ses cymbales.
- Dément. Dis, Stone, elle est toujours avec toi?
- Non, j'l'ai larguée. Je sors avec sa soeur, Chris. Ah ! oui, j'oubliais d'te dire, Ronnie est rentré de Londres. ll a ramené des escarpins à boucles, tu sais, comme le chanteur des Kinks. On a écouté des disques déments l'autre soir. Les Who, tu connais?
- Les quoi?
- Les Who. C'est des Mods, mais ils sont vraiment très bien. Ronnie les a vus sur scène à Londres. Paraît qu'ils s'tapent dessus quand ils jouent
- Dément... Bon, j'vais raccrocher. Y a un vieux qu'est en train d'faire une scène dehors. On s'voit samedi-8 heures devant la Loco?
- D'accord, 8 heures. Salut.
Le samedi, les banlieues se vidaient de leurs mutants électriques et de très longs week-ends commençaient. Lorsque la nuit tombait sur Paris, en 1965, les kids à cheveux longs arrivaient par centaines à la Locomotive, un club de Pigalle où l'on pouvait voir les Kinks, les Pretty Things ou d'autres formations plus obscures tels les Koobas, les Sorrows, les Stormville Shakers. Et Ronnie Bird, dont toutes les filles ensuite parlaient pendant des semaines. L'acide n'était pas très connu alors (Phil May fut le premier en Europe à le chanter : LSD...) et tout le monde se gavait de préludine. C'était l'époque des ordonnances falsifiées et nous vivions sur une fabuleuse énergie que les 45 tours des nouveaux groupes anglais venaient sans cesse raviver : on restait trois nuits sans dormir et un soir, en allant s'écrouler chez un ami, on découvrait I Can't Explain des Who ou Gloria des Them. Craaazy !!! C'était cela, avoir 15 ans en 1965 : la guitare de Brian Joncs pointée vers la salle, les yeux cernés des filles dans les matins lugubres (elles s'appelaient toutes Stone, et nous Ronnie...), la joie de Mick Jagger dansant en tennis, les groupes anglais immanquablement photographiés devant des murs de briques, à l'angle de ruelles pluvieuses. Tout avait commencé avec les Stones, la vague beat ne correspondant ici qu'à une période de transition dont les seuls survivants seraient, dix-huit mois plus tard, les Beatles. Ce furent les Stones qui, les premiers, tirèrent la langue et vinrent hurler aux grilles des prisons adultes : Not Fade Away, Carol, It's All Over Now, le stuff dont on alimente ses révoltes. Là où la musique des Beatles avait réjoui / régénéré / rajeuni, celle de Jag & Co. libérait : nos Stones, précisaient leurs fans... Les premiers albums des Pierres étaient bourrés de classiques de Chuck Berry et Bo Diddley, maîtres swingers qu'une génération allait en l'espace de quelques mois (re)découvrir. Et tout cela coïncidait avec les premières parutions Tamla-Motown, le retour de Little Richard ("Bama lama, bama loo"), les débuts sur scène de Ronnie Bird et la nouvelle formule de Disco Revue ("Unissons-nous et appelons-nous LES ROCKERS ; à partir de là, tout ce qui nous semble impossible aujourd'hui ne le sera plus demain", n°1, 3 octobre 1964).
On était à la veille de la première venue en France des Stones et l'été avait révélé les Animals. Ceux-là au moins ne feraient pas s'évanouir les petites filles : leur trip les portait plutôt vers l'hommage à John Lee Hooker et à Ray Charles auxquels leur chanteur, un Geordie sans grâce mais plein de feeling, vouait une admiration illimitée et un amour immense. Ce fut donc The House Of The Rising Sun, avec l'infâme solo d'orgue d'Alan Price. I'm Crying, Boom Boom, une dizaine de hits et quelques albums fabuleux suivirent. Le fardeau, à cette époque, ne pesait pas encore trop lourd sur les épaules d'Eric.
Un automne nous apporta les délicieux Kinks, dans leurs vestes de chasse rehaussées de cols à jabot. Wow, You Really Got Me, Ray... Les Kinks venaient de Muswell Hill, un quartier peu reluisant, et ils niaient avec immensément de talent leurs origines plus que modestes. Une demi-décade avant Arthur, c'était déjà la même vision douce-amère que nous proposait Ray Davies : les enfants des rues se parant de dentelles pour aller filmer leur hit à Top of the Pops...
Sur scène, Ray et l'adorable Dave se montraient outrageusement charmants : il leur arrivait parfois de se gifler ou de mimer quelque fantaisie homosexuelle. Les Kinks furent sans nul doute les premiers décadents du rock anglais. Et l'aîné des deux frères avait une certaine facilité pour écrire des classiques de 2' 35" : You Really Got Me, All Day And All Of The Night, Tired Of Waiting For You, Set Me Free, A Well-Respected Man, Till The End Of The Day, Dedicated Follower Of Fashion, Sunny Afternoon, Dandy, Dead End Street, Mister Pleasant et, arrêtons-nous en 1967, le merveilleux Waterloo Sunset. N'oubliez jamais les Kinks : a mother of a rock'n fuckin' roll band...
Nous découvrîmes, vers le tout début de 1965, Les Plus Sauvages d'Entre Tous. Ils étaient originaires de Dartford, comme ces Stones avec lesquels leur guitariste avait joué, et s'appelaient les Pretty Things. Les Choses d'alors se composaient de Phil May (chanteur-harmoniciste), Dick Taylor (guitariste), Brian Pendleton (rythmique), John Stax (bassiste) et Viv Prince, premier d'une longue lignée de batteurs "fous" (Skip Allen, Twink, etc.). Rosalyn, Don't Bring Me Down, Honey I Need, Midnight To Six Man, Cry To Me et une multitude de classiques créés par Bo Diddley étaient les pièces maîtresses d'un répertoire que Phil May interprétait avec une folle sensualité. Jamais le chanteur des Things ne laissait indifférent. Et ce groupe à scandale reste, aujourd'hui encore, l'un des plus violents de l'histoire.
Vinrent ensuite les Who et les Them. Les Who étaient, avant Meher Baba et les longueurs de Tommy, des profanateurs au premier degré : ils attaquaient sans même le vouloir toute une conception aliénante de la musique. Le chanteur bégayait, le batteur semblait ignorer les temps. Et Townshend, à grand renfort de moulinets, reculait les limites du permis, pulvérisait la notion de bon goût. Tout cela dans la plus parfaite innocence, comme seuls quatre Mods de Sheperd's Bush pouvaient se le permettre... I Can't Explain, My Generation, The Kids Are Alright, Out In The Street, I'm A Boy, Instant Party. Faut-il encore insister?
Don't Start Crying Now, Philosophy, Baby Please Don't Go, Gloria : les Them arrivaient de Belfast, de ce Maritime Club où ils s'étaient, avec les marins et les prostituées, habitués à briser des bouteilles en jouant du rhythm'n blues. Leur chanteur, un jeune vieillard menaçant, avait fait son apprentissage en Allemagne, dans les casernes de Noirs américains. Van Morrison hurlait chaque mot, parfois chaque syllabe, et se consumait en solitaire. Mystic Eyes...
Il y eut aussi les Yardbirds (For Your Love, Heart Full Of Soul, Still I'm Sad), capables de remplacer leur légendaire premier guitariste par un second plus talentueux encore. Les Moody Blues (Go Now) qui ne donnaient pas à cette époque dans la pompe et le mellotron, mais préféraient électrifier des vieux classiques de Sonny Boy Williamson (Bye Bye Bird). Les Small Faces (Whatcha Gonna Do About It, Sha La La La Lee, Hey Girl, All Or Nothing), quatre autres Mods hargneux. Les Outsiders (Lying All The Time, Touch, That's Your Problem), un fabuleux groupe hollandais dans la lignée des Pretty Things. Ronnie Bird (Fais attention, Où va-t-elle ?), le seul en France à chanter le rock comme nous l'aimions. Et les Troggs, dont la voix métallique du leadsinger (Reg Presley) et le jeu sommaire/dépouillé du batteur (Ronnie Bond) préfiguraient assez étrangement... Alice Cooper. Les Troggs, une sexualité fruste, primaire: Wild Thing, With A Girl Like You, I Want You, I Can't Control Myself
Ce fut une époque riche, en musique et en bien d'autres choses. Personne alors ne parlait du marginal, mais chacun le vivait. Le rock était tout, ou il n'était rien. Et il régnait, chez les gens à cheveux longs, une complicité farouche. Se heurter à la haine des adultes dans les lieux publics, échapper aux rafles de police dans les gares, squares, cités et faire de la distribution de prospectus pour ne pas dépendre de la famille, tout cela créait des liens assez forts.
Mais le rock allait devenir un... art. Il allait naître une contre-culture pour ceux qui s'étaient jusque-là passés de culture. Jagger venait de se couper les cheveux et les enfants des banlieues savaient bien que tout devrait changer. On entrait dans une nouvelle ère, celle des acid trips et des questions sans réponses. Il redevenait urgent de falsifier le Réel, de le jeter à un chien nommé Hasard qui l'emporterait loin, très loin... À Paris nous étions, en cet automne 1966, une poignée à découvrir les premiers groupes punk Mitch Ryder & the Detroit Wheels, les Shadows of Knight, le Count Five, Question Mark and the Mysterians. Tout pouvait encore recommencer.

Intermède : la fonction teenager
(des mérites comparés du gauchisme, du twist et des bottes à semelles compensées)
Les teenagers préfèrent le bubblegum au marxisme. C'est heureux. En 1972, on a redécouvert le trip teen et son implication première, l'éphémère. Les mots "engagement", "rigueur", "lucidité " font bâiller leur utilisation/existence est désormais aussi désuète que l'était devenue celle du terme british blues il y a deux ou trois ans. Fatigués d'écouter des prêcheurs attardés (Mao-Mayall, même combat...), les Enfants électriques ont chaussé des bottes et escarpins à hauts talons dorés, gagnant ainsi en taille ce qu'ils avaient perdu en illusions. Et, dans les librairies de Saint-Michel, on se débarrasse vite fait des encombrants volumes d'analyses militantes pour se racheter les premiers Little Richard chez Specialty. Awopbopaloobopalopbam-boom. Le processus, on le sait, n'est pas neuf : une période de puritanisme (ici le gauchisme) engendre presque immanquablement une recherche outrancière de jouissance, d'éclatement, de "libération". La disgrâce actuelle dudit gauchisme résulte d'une méconnaissance des lois régissant le monde teen : elle est l'aboutissement normal de cette incapacité des militants à percevoir/devancer les fantaisies des kids. Â trop répéter que le rock était une musique aliénante, les vieillards en battle-dress se sont coupés de son public. Imposer ne suffit pas toujours à séduire. Il nous faudra, la prochaine fois, des politiciens érotiques.
Croire, en Phrance, à la vocation politique du rock c'est, si l'on refuse de s'associer aux trips autoritaires, se heurter:
a) aux naufragés du gauchisme et autres laissés-pour-compte d'une époque où distribution de frites et renversement de deux barrières métalliques prenaient immanquablement le nom de "fête sauvage". Chaque génération porte en elle ses anciens combattants;
b) à cette fraction (importante) du public qui associe la dénonciation du star system à une quelconque volonté d'empêcher les gens de "rêver en rond". Pourquoi brûler ce que l'on a aimé ? demandent les défenseurs du rêve.
R: Parce que c'est l'essence même du phénomène teenager que de brûler ce que l'on a aimé : qu'est-ce qu'un teen, sinon un juke-box dans lequel les 45 tours se chassent d'un mois à l'autre. L'innocence par l'excès, la réponse à ses impulsions tout cela relève de la plus élémentaire politique du jeu. Et le dégoût que l'on peut éprouver pour le star syslem provient de ce qu'il tue le jeu immensément plus qu'il ne l'enrichit : ses "étoiles" sont des institutions, de vulgaires cailloux/satellites prisonniers du système au coeur duquel ils se meuvent. Turn turn turn.
Si les stars étaient, au contraire, "originatrices" de nouveaux systèmes, les institutions disparaîtraient : elles seraient démesurées/dérisoires et, mieux encore, éphémères: on les jetterait comme les Kleenex qu'elles sont. Le rêve n'y perdrait pas grand-chose.
I'm just out a school
Like I'm real real cool
Goot shake, gotta jive
Got the message that I gotta be alive
I'm a wild one
Yeah... I'm a wild one.
La rock music n'a que faire des slogans ("Power to the people", "Crève salope", etc.). Lorsqu'elle est politique, c'est le plus souvent inconsciemment : Chuck Berry, les Stones de Satisfaction, les Who de My Generation, les Beach Boys (la quasi-répugnance qu'éprouve tout un chacun à parler des fabuleux BB est assez révélatrice des tares dont souffre la critique rock phrançaise...), Alice Cooper (Eighteen). Mots griffonnés pendant des heures de cours, inscriptions sur les murs des supermarchés. L'imagerie du vécu dépasse n'importe quelle logique fondée sur un raisonnement. C'est là la force du teenager.
Et l'aventure gauchiste n'est pas, dans le contexte musical/électrique qui nous préoccupe, plus importante que la mode du twist ou des bottes à semelles compensées.

3. Punks
1967, année du regain americain...
À Monterey, Jimi "Wild Thing" Hendrix caresse de sa Stratocaster les bas-ventres californiens. L'outrage renaît, avec des groupes sensiblement en marge du mouvement hip : les Doors, Steppenwolf, deux des plus monstrueuses mécaniques que l'Amérique ait assemblées en son sein. Noblesse du cuir noir. Puissance. Viol. Et, sur la côte est, le Velvet. La viole de John Cale, comme le cri d'un ongle sur le tableau. Lou Reed, témoin nasillard d'une décadence feutrée il sera à David Bowie ce que Chuck Berry avait été aux Stones. Peel slowly and see, vous découvrirez une lumière et une chaleur blanches. Réverbères brisés, heavy vibes.
"Detroit, c'est le Grande Ballroom. Ça sent la sueur des chicks et tu prends des bouteilles dans les jambes, mais l'énergie est super high". (Phil, un punk du Michigan rencontré à Bath.)
Jouer du rockanroll à Detroit, cela signifie échapper aux chaînes de montage de la General Motors, oublier qu'il faut décrasser ses vitres chaque matin si l'on veut voir la lumière du jour. En 1969, le MC5 donna la mesure de cette réalité : un premier album de live, l'insurrectionnel "Kick Out The Jams". Dans la brèche ouverte par Rob Tyner et son gang, mille et un heavy-metal rockanroll hands s'engouffrèrent : Frost, SRC, les Amboy Dukes, les Rationals, le Bob Seger System, Frut, Brownsville Station, Cradle, Pride of Women, Up.
Et les Stooges, hurlant la punkitude des grands ensembles. Une musique devenue vertige, la plus belle/violente expression du rock urbain. Superbe arrogance d'Iggy crachant son ennui comme on déchire les affiches, lambeau par lambeau :
Well, it's 1969, OK
All across the USA
One more year for me and you
Another year with nothin' to do

(1969)
Autre personnage d'exception révélé par les Stooges : Ron Asheton. Réécoutez, sur le premier album, un morceau intitulé Not Right : vous y découvrirez la partie de guitare la plus rock, la plus "sale", la plus punk de l'histoire...
À cette époque, l'Angleterre s'essayait elle aussi à la High-Energy Music : Edgar Broughton et son légendaire Out Demons Out, les striptease de Twink (le batteur des Pink Fairies), la brutalité de Third World War. Les précurseurs de ce mouvement avaient été les Deviants, groupe profanateur assemblé par Mick Farren. Souvenir : un après-midi d'août 1972, à Wembley. Le Gladiateur noir est en scène. Il y a beaucoup de bière, deux chicks des White Panthers s'embrassant dans le soleil et des Teds qui dansent le bop. Tout à coup Mick Farren hurle "Bo Diddley is a lover..." Entre deux accords, le créateur de Mama Keep Your Big Mouth Shut tend le poing et sourit.

4.I'm bad
All the flat top cats
With their rock and roli queens
Just a-rockin' and rollin'
In their red & blue jeans
Rock and roll is all they play
All round the world.

(Little Richard, All Around The World)
1973 sera une année électrique. Alice Cooper a réintroduit l'éphémère (Eighteen, School's Out, Elected) dans un univers qui s'en passait difficilement. Mais Alice est un garçon très, très équilibré qui ignore les folies gratuites. Aucune confusion chez lui entre la scène et la vie : grand admirateur/observateur de Jim Morrison, il a su tirer les leçons qui s'imposaient, s'est fabriqué un masque fort pratique et ne dépassera jamais cette limite au-delà de laquelle le connu risquerait de s'effriter...
Ce pas, d'autres se décideront à le franchir. On pense aux New York Dolls dont le batteur (Billy Murcia, 18 ans) est mort il y a quelques semaines. Les Dolls semblent prêtes à pousser le jeu jusqu'à son extrême limite : elles exigent, avant même d'avoir enregistré un seul disque, deux Cadillac pour leurs déplacements. Si ces Poupées-là venaient à réussir leur coup, gageons qu'une génération entière s'éprendrait de leurs inspirations : Stones, Kinks, Pretty Things, Who... L'amour des Pierres ne nous avait-il pas, il y aura bientôt dix ans, fait découvrir Bo Diddley et Chuck Berry?
Les Flamin' Groovies, nous y reviendrons, sont de délicieux punks qui claquent sans cesse des doigts et possèdent chacun leur cran d'arrêt. I'm bad... Les Groovies ont su associer la musique des 50's, l'atmosphère des 60's et l'esprit des 70's en restant, ce qui ne gâche rien, de réels teenagers : demandez à Cyril, leur guitariste, comment il forçait l'entrée des concerts des Beach Boys, à Los Angeles, avec ses amis Kim Fowley et Rodney Bigenheimer.
À Londres c'est, depuis l'été dernier, la récréation nostalgique de la scène warholienne des mid-sixties : David Bowie et Roxy Music restent cependant les figures les plus représentatives de ce courant "cigarettes mentholées et camionneurs graisseux rêvant de Dorothy Lamour"... Lou Reed vient de sortir un nouvel album, "Transformer", et Iggy a terminé l'enregistrement du sien. Enfin, les Pretty Things reviennent, avec un Phil May aussi sensuel que par le passé.
Tout est possible, pour 1973. Flash Cadillac and the Continental Kids, les Sparks, Kim Fowley, Teenage Lust, il suffit d'oser... Du verre brisé, des cuirs flamboyants, et overdose sur overdose d'électricité. Laissez-vous porter, pendant un an, par cette rockanroll music (... It's got a back beat, you can't lose it) : get yer ya ya's out. Il n'est jamais trop tard pour tout recommencer.
© Yves Adrien, Rock & Folk, n° 72 - Janvier 1973 POUR LE TEXT/FOR THE TEXT/PER IL TESTO.





[1] “Monitor” (Siouxsie and the Banshees)

YVES ADRIEN (il giornalismo “musicale” è tale, oppure o è giornalismo o non lo è?)




YVES ADRIEN
(il giornalismo “musicale” è tale, oppure o è giornalismo o non lo è?)


La, più o meno voluta (nel senso che non pare si cercò di evitarla), incapacità italiana di avere una dimensione rock e pop internazionale ([1]) si evidenzia anche – può discutersi se il consumatore dipenda dal recensore, o viceversa – nello stato di isolamento del giornalismo musicale nazionale a cavallo fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso.

Infatti, non mi risultano cronache eclatanti, o prese di posizione dirompenti, sulle colonne di Ciao 2001 o Big, o ….
Tanto che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni (“I am a DJ I am what I play” oppure “I am a DJ, YOU are what I play” per dirla secondo una canzone di David Bowie, “DJ” evidentemente) o forse la trasmissione “Per voi giovani” di Giaccio e Cascone ([2]) erano i soli che contavano per orientare ed informare. Del resto, per alcuni la inutilità della recensione è un dato acquisito.

Dei giornalisti dell’epoca pre-punk si salva(va) solo Riccardo Bertoncelli, con una prosa talvolta epica nel dipingere la scena della Bay Area, già meno efficace quando andava a scrivere di Genesis. C’è da chiedersi, non si tratta di ironia, come Enrico Ruggeri abbia potuto conoscere il glam rock, ad esempio.

Dunque per il medio ascoltatore italiano l’estero era pochissima cosa ([3]).

In Francia no, come ho già scritto altrove il panorama era ben più esaltante per i ragazzi, ma le quattro facciate che Yves Adrien pubblica su Rock & Folk numero 72 del gennaio 1973 dal titolo “Je chante le rock electrique” sono davvero un avvenimento (non è un articolo usuale, è un corsivo da terza pagina di quotidiano nazionale).
Sorta di manifesto per i non allineati sonici delle terre del giglio bianco o se si preferisce la discografia di studio per l’esame accademico di pre-punkitude ed infatti la parola “punks” compare addirittura nel titolo di un paragrafo.

Poco dopo coloro che hanno superato la prova con almeno un 28/30 andranno a rifornirsi di vinile da Marc Zermati con il suo banchetto nelle malfamate Halles parigine pre-Beaubourg ([4]). Da lui passavano anche Adrien e Alain Pacadis.

Non credo serva più nemmeno la morale.


                                                                                                                                            Steg





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[1] Del resto, i concerti locali di The Beatles e di Jimi Hendrix continuano ad essere descritti con toni di stupore e incredulità che più si addicono ad apparizioni di alieni che ad esibizioni musicali. 
[2] Tenete presente che le radio cosiddette libere arriveranno solamente nel 1975 e la stampa estera era appannaggio di forse tre edicole a Milano (non che nel 1979 si superassero le cinque).
[3] Sarebbe bastato chiedere che cover fosse “I giardini di Kensington” interpretata da Patty Pravo per uno sguardo smarrito.
[4] Zermati circa un lustro dopo è il responsabile - finanziatore più che “produttore” - della pubblicazione di Metallic KO di Iggy Pop e i suoi Stooges.